di Alberto Asor Rosa da Il Manifesto 19-7-2014
Vorrei
cominciare questa volta da lontano. All’inizio, più o meno del 2013, nell’imminenza delle ele- zioni politiche nazionali, presi l’iniziativa di stendere un appello a
favore del voto al Pd e lo feci rapi- damente circolare (anche il testo di
quell’appello sarebbe forse
da rileggere, per capire di cosa allora si ragionava).
Nello spazio di una decina
di giorni, lo “ritirai”, per così dire, e
lo ritrovai fir- mato, oltre che da me, ovviamente, dalle
seguenti personalità intellettuali: Guido Rossi, Stefano Rodotà, Gustavo
Zagrebelsky, Claudio Magris,
Barbara Spinelli, Tullio De Mauro, Vittorio
Gregotti, Andrea Camilleri, Natalia Aspesi,
Umberto Eco, Luigi Ferrajoli, Piero Bevilacqua, Alberto Melloni, Giorgio Parisi, Filippo Gentiloni, Nadia Urbinati.
Sorprende, no? L’incredibile vastità e
varietà dello schieramento intellettuale qui rappresentato stava a significare,
mi pare, due cose:
l’insopportabilità
del protrarsi del lercio dominio berlus- coniano e la fiducia, evidente, anche se in taluni intimamente condizionata, nell’esperimento bers- aniano. Cos’era
l’esperimento bersaniano? Era il tentativo di creare in Italia un
governo di autentico centro-sinistra, non eversivo né antagonistico (figuriamoci), ma al tempo stesso non soggetto al pre- dominio straripante del grande capitalismo finanziario e dell’Europa bruxellensis, che in sostanza con esso coincideva.
Di quel complesso di
fattori, politici e intellettuali, ma anche psicologici ed emotivi, che aveva spinto quel gruppo di personalità a prendere siffatta
posizione, ora, dopo appena un anno e mezzo,
non resta nulla.
Non resta la
coesione, sia pure provvisoria, certo,
ma proprio perciò ancora più significativa, che le aveva spinte a
stare
insieme per conseguire il medesimo obiettivo. Non resta neanche
la minima traccia dell’obiettivo per il quale avevano ritenuto in
quel momento di
esporsi. Perché sia accaduto questo, bisogna
che in questo anno
e mezzo sia
precipitato sull’Italia un diluvio, cui bisogna ora porre un argine, e
ancor
più un rimedio.
Già allora osservai che impedire all’inequivocabile vincitore
delle elezioni, Pierluigi
Bersani, di espe- rire
in Parlamento,
cioè nella sede propria, la
ricerca della propria maggioranza, avrebbe posto le premesse di uno svolgimento anomalo del
gioco politico in
Italia. Siamo infatti passati da
allora, e in misura crescente, da
un’anomalia all’altra, senza che,
a un certo punto,
qualcuno dicesse: basta, così non si può andare avanti.
L’esito finale di questo cumulo di anomalie è
ciò che ci sta davanti
e nel quale noi viviamo (o,
per meglio dire, corriamo il
rischio di annegare).
Matteo Renzi è il frutto di questo cumulo di anomalie, di
cui più che essere il politico che ne ha approfittato abilmente, rappresenta una
manifestazione esemplare, il
personaggio tipico e tipizzante
più significativo.
Mi limiterò a indicare
quelli che per me sono
i quattro blocchi
di problemi, con i quali
ci si misura ogni
qualvolta s’intraprende una
disanima delle sue personalità e delle sue azioni.
1. Renzi
è un politico plebiscitario. E’, di conseguenza,
un tipico politico post-democratico, se
la post-democrazia, come sempre più spesso si sente ripetere, consiste nell’appello diretto al “popolo” e nella svalutazione degli strumenti tradizionali del voto e della rappresentanza. Tutto quello che propone o
dispone — la riforma del Senato, la legge elettorale detta Italicum, l’aumento straordinario delle firme necessarie per
la presentazione dei referendum, ecc, ecc, — procede in questa direzione.
Questa vera e propria rimodellazione delle strutture istituzionali esi- stenti, contempla
però un altro aspetto
forse più importante del primo: e
cioè il tentativo di
ridurre
anche le forme più rilevanti
del “pubblico” (e cioè strutture e prerogative dello stato, auto- nomie istituzionali e funzionali dei
diversi settori) dentro questo quadro. La struttura dello Stato, rifondata faticosamente (e non senza, a dir la verità, aporie
e insufficienze) dopo
la parentesi
autoritaria del fascismo, allo scopo, fondamentalmente, d’impedire che
la politica se
ne impadr- onisse e la governasse senza resistenze ai propri fini, viene attaccata quotidianamente e prospet- ticamente da tutte le parti.
2. Se questa è la direzione di marcia, ne consegue
che la politica formal-istituzionale di
Renzi non ha più nulla del tradizionale “animus” di
centro-sinistra, che ha caratterizzato la
nostra esperienza democratica nel corso degli
ultimi
settant’anni. Non è, a dir la verità, neanche
una politica di centro-destra intesa anch’essa
in senso tradizionale. E’ un tentativo, di tipo nuovo,
di mettere
l’intero sistema al servizio di
una prospettiva di pseudo-razionalizzazione e
pseudo-finzionamento del meccanismo statuale
e istituzionale, che elimini quanto più possibile gli inconvenienti della discussione, della trattativa parlamentare e,
Dio mio che noia!, del conflitto. Ripeto: del conflitto
in tutte le sue forme. I
corpi separati (e
in qualche modo autonomi) dello Stato, le rappresentanze
sindacali, la pretesa delle forze politiche (del resto, quali, ormai?) di rappresentare interessi fuori della norma,
ecc. ecc., costituiscono in
questa visione altrettante anomalie, che ostacolano
l’illuminata attività del Sovrano, che dispone invece, come dicevo, di tutte le funzioni prelimi-
narmente considerate e razionalizzate.
3. Siccome non
esistono più interessi da
rappresentare né “valori” da preservare, allora si può, cam- min facendo, fare accordi con i più sudici
degli
interlocutori, sempre in
nome della razionaliz-
zazione del sistema (e questo, poi, è solo quanto emerge alla superficie:
che dire, o, meglio, cosa immaginare di cosa
ci può essere sotto banco?).
Questo vuol dire, mi pare, almeno una cosa.
La politica non si misura più,
bene
o male, con l’ethos.
4. Quali
differenze sostanziali, di comportamento
e di obiettivi, passano
ormai fra il cosiddetto centro-sinistra (Pd?) e il cosiddetto centro-destra? La verità è che si sta
formando in Italia, sulla base delle procedure di razionalizzazione e
centralizzazione perseguite da Matteo Renzi, un polo brutalmente unificante, totalmente inedito, e orientato costituzionalmente a portare, come
dicevo, alla cancellazione del conflitto e
a un governo saggio, unitario, benevolente, ormai fuori dal gioco delle azioni e reazioni che una volta si dicevano “democratiche”. Non più il modello europeo dell’alternanza
(per quanto anche l’ì…): è il modello italiano, che introietta la
possibile alternanza dentro la
pacificata sintesi degli (pretesi, certo, ormai solo pretesi) opposti.
Per conseguirne
senza
il
pericolo di ritorni di fiamma la
definitiva leadership, Matteo Renzi ha bisogno di dimo- strare presto, molto presto, di esserne capace. Per
questo si è inventato due o tre riforme istituz- ionali della
cui esigenza
e coerenza è lecito fortemente dubitare, per poter andare subito al sodo. Il resto verrà più avanti: per
ora
lascia che i suoi fedelissimi comincino
a parlare (in perfetta sint- onia con il “vecchio” centro-destra)
dell’abolizione dell’articolo 18, del presidenzialismo… .
Se le cose stanno così, ne discendono alcune
conseguenze.
La prima è che la versione corretta della proposta renziana di rottamazione è quella di portata uni- versale, che investe
e travolge alle radici l’intero sistema.
Questa è anche —
penso non contraddit-
toriamente — la sua versione
più nobile. Renzi vuole rottamare l’intero
sistema democratico italiano. E’ un’idea inaccettabile, ma è un’idea. Chi non è d’accordo deve decidere subito di
battere un’altra strada.
Per
trovare, rapidamente ed efficacemente, un’altra strada (o “ritrovarla”,
come scrive Rangeri), bisogna presto concludere che il Pd a questo fine è perduto. Il Pd non è recuperabile, l’esperienza
plebiscitaria di Renzi ne ha cambiato
la natura. Siccome l’Uomo è uno che non
fa né superstiti né prigionieri, la situazione non può che peggiorare. Dunque, non è da lì dentro che
può venire anche solo un primo abbozzo di risposta.
E da dove,
allora? Ho
già scritto che nulla,
in questa fase politica (forse sempre)
è possibile senza un
partito. Un partito può essere, sulla base di esperienze nel merito ormai secolari, anche cose molto
diverse l’una dall’altra.
Sulle forme, dunque,
si potrebbero fare, soprattutto oggi, ragionamenti
diversificati, anche se, alla fine, per tenerli insieme,
complementari. Ma una è irrinunciabile.
Biso-
gna essere d’accordo sugli elementi fondamentali di una strategia: obiettivi positivi e obiettivi nega- tivi. Se ne potrebbe discutere per un po’, serenamente.
Ma uno di questi — prevalentemente negativo,
ahimé, ma solo per ora — è chiarissimo (e
non
è poco): sbarrare la strada all’esperimento renziano. A questo fine — come
dire
— bisognerebbe
rinunciare da subito, e
se possibile per sempre, a quella caratteristica permanente della
sinistra insofferenza, che è la puzza sotto il
naso.
E cioè. Se si parte dalle cronache politiche di tutti i giorni, direi
che
esiste una
vasta zona,
che
va da forze
di sinistra ancora
presenti nel Pd al nucleo più resistente di Sel a settori consistenti
dell’opinione pubblica e intellettuale, in cui si pensano cose analoghe, se non addirittura coincidenti. E come mai?
ma perché, secondo me, esiste oggi un enorme spazio in cui un antagonismo
di sistema finisce per coincidere con un riformismo radicale enormemente ricco
di contenuti e
di potenziali tra- sformazioni (mi
chiedo se, alla prova dei fatti
non vi siamo
comprese anche organizzazioni che si richiamano ancora all’idea
comunista).
E Tsipras? Ho
un enorme rispetto per l’esperimento, ma non credo che
da solo sia destinato a
cre- scere fino a rappresentare un ostacolo serio,
in Italia e
in Europa, ai rischi incombenti. Del resto, anche da questo punto di vista, molti
intrecci e convergenze sono ipotizzabili. Se infatti
nel conflitto sono attualmente in
gioco forme diverse
della democrazia
o della post-democrazia,
il nostro punto di riferimento è indubbiamente
quello di una
democrazia partecipativa, che nasce dal basso e si dif- fonde a rete sull’intera società.
Perché allora non tentare di
sperimentare questa linea non in sepa- rata sede, bensì all’interno di una situazione organizzativa di
più vaste dimensioni e
di comprovata esperienza, che lo inglobi e ne faccia il
perno
di tutta l’azione
di opposizione?
Appunto: opposizione. C’è un’opposizione in
Italia? Se c’è, con i miei modesti strumenti di
osserv- azione, non riesco ad accorgermene. Del resto, è logico. Se non c’è sinistra, come può esserci oppos- izione? Allora si capisce perché l’atto politico destinato a
innescare un processo di
questa natura sarebbe di
per sé di enorme
importanza. In Italia, ripeto, non esiste per ora una sinistra organizzata in grado di rappresentarsi in
tutte
le situazioni, istituzionali e
sociali, come elemento decisivo
del confronto e
del conflitto. Se proveremo
a crearla, imboccheremo la nuova strada. Se no, no.
E saranno dolori.
© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ
COOP. EDITRICE
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