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domenica 20 luglio 2014

I PERICOLI PER LA DEMOCRAZIA DEL PROGETTO di Renzi e Berlusconi

di Alberto Burgio da Il Manifesto del 20-7-2014


Indispettito dal persistere della  dissidenza e dalle  accuse di autoritarismo rivolte ai suoi disegni
«riformatori», il presidente del Consiglio segni d’impazienza. Irride e fa del sarcasmo gratuito.
È tipico  di chi mal tollera le critiche, ma in questo caso  c’è di più. Sta  finalmente emergendo il senso delle  grandi manovre in corso: la «cosa  stessa» su cui si gioca  la partita. Si può dire  così, in estrema sintesi: viviamo  (da anni)  nel pieno  di una  crisi  democratica che  ora  minaccia di sfociare in un regime. La formula suona estremistica, eppure è la descrizione fedele della  situazione. Vediamo perché.

Da vent’anni a questa parte in Italia si opera per  manomettere il rapporto di rappresentanza – essenza di una  democrazia parlamentare e per  ampliare la distanza tra  «paese reale» e «paese legale». In una  lunga transizione (lunga ma tutto sommato rapida, considerata la portata delle  tra- sformazioni) si è venuto modificando il sistema in senso maggioritario-bipolare al solo scopo  di auto- nomizzare le istituzioni politiche dal terreno sociale e dai suoi conflitti. Questa è stata la bussola delle «riforme» per  la «governabilità» che  hanno segnato la via italiana alla post-democrazia. Era, per esempio, l’obiettivo della  dottrina del «taglio delle  ali», formulata, tra  gli altri, da Massimo D’Alema.

La centralità (anticostituzionale) dell’esecutivo discende da qui, poiché, correlata alle sole posizioni dominanti, la prassi politica si risolve nell’applicazione del paradigma governamentale, con tutti
i suoi corollari autoritari e familistici, compreso il proliferare delle  logiche mafiose di appartenenza che  ormai dominano ogni ambito istituzionale. La stessa corruzione dilagante è in buona misura riconducibile a questo processo. Perché l’autosufficienza incoraggia la decadenza etica delle  istit- uzioni,  e perché un ceto  politico che  si costituisce a valle di una  brutale amputazione della  rappres- entanza (e che  di fatto  agisce come  una  protesi esecutiva del governo) si compone perlopiù di attori interessati a percepire cachet sempre più profumati, all’altezza del tradimento perpetrato nei con- fronti della  democrazia repubblicana.

Questa è la storia degli  ultimi  vent’anni, la cui chiave di volta  consiste nella  distruzione dei partiti come  strumenti di rappresentanza e come  luoghi  di alfabetizzazione politica e di partecipazione democratica di massa.

Ma questa storia frutto anche della  cronica inadeguatezza di una  sinistra incapace di arginare l’offensiva reazionaria inaugurata  dalla  Bolognina approda oggi a un salto  di qualità. In questo senso la crisi  democratica di lungo  periodo minaccia seriamente di sfociare nella  costruzione di un regime.

Per un verso, l’eclissi  della  rappresentanza si traduce nell’irresponsabilità del governo di fronte ai devastanti effetti della  crisi  sociale. I dati  sulla  povertà, la disoccupazione, l’implosione dell’apparato produttivo e del sistema formativo sono  sconvolgenti. C’è materia per  varare un governo di salute pubblica che  subordini ogni obiettivo al varo  di misure straordinarie per  il rilancio dell’economia nazionale, con tanto di prelievo forzoso  e massiccio sui grandi patrimoni privati per  finanziare drast- iche  iniziative di investimento e redistribuzione. Niente di tutto questo avviene, come  ben  sappiamo. Il governo che  doveva  «cambiare verso» persevera, con un sovrappiù di populismo, nelle  politiche
pro-cicliche dei predecessori (precarizza, taglia la spesa, privatizza, aumenta la pressione fiscale sul lavoro)   per  tacere di altre oscene continuità, e in particolare dell’oltranzismo filoatlantico e guerr- afondaio. Perciò il ruolo  dei media è oggi strategico, fornendo l’«informazione» nei fatti,  una  rap- presentazione propagandistica un sostegno essenziale a un’azione di governo sempre più lontana


da ogni base reale di legittimità.

Ma questo non significa che  la politica stia  con le mani  in mano, al contrario. Per l’altro verso, essao- pera febbrilmente sul terreno delle  «riforme», impegnandosi in un processo costituente di enorme portata. Un nesso organico collega tra  loro i due  momenti l’eclissi  della  rappresentanza
e l’iniziativa «riformatrice» del governo nel senso che  le «riforme» mirano a costituzionalizzare l’assetto istituzionale più idoneo alla gestione oligarchica della  dinamica economico-sociale e più capace, al tempo stesso, di proteggere il sistema politico dai rischi conseguenti alla sua autoreferenzialità.

Sarebbe difficile  in questo quadro sopravvalutare la rilevanza del patto Renzi-Berlusconi. Lo si bia- sima,  a ragione, per  i suoi obbrobriosi profili  etici:  perché colui che  in questo ventennio ha incarnato la corruzione della  vita italiana ne viene  innalzato a padre costituente; e perché l’accordo è di certo in qualche modo  connesso alle vicissitudini giudiziarie di uno dei contraenti, serie anche dopo  la sua sorprendente assoluzione milanese. Ma la sostanza resta tutta politica.

L’intesa serve in primo  luogo  a garantire all’iniziativa «riformatrice» una  base parlamentare suff- iciente (almeno sulla  carta: di qui le reazioni scomposte del presidente del Consiglio al manifestarsi della  dissidenza).

Ma soprattutto il patto tra  i capi  del Pd e di Fi riflette e cementa una  convergenza di propositi antit- etici  all’ispirazione democratica e antifascista della  Carta del ’48. L’idea piduista che  accomuna
i due  contraenti è chiara: il partito che  vince  le elezioni (cioè la più forte delle  minoranze politiche) deve poter prendersi tutto. Quando Berlusconi si lamenta dell’impotenza dei governi, questo intende dire. E ha nel giovane leader «democratico» un discepolo concorde e diligente.

Come  le analisi di Massimo Villone mostrano in modo  incontrovertibile, il progetto «riformatore»
mira  a smantellare il sistema costituzionale dei contrappesi: a varare un regime autocratico nel
quale la maggiore delle  minoranze (al netto dell’astensionismo, il 20–25%  di un corpo  elettorale sem- pre  più disinformato e disorientato) possa eleggere un presidente della  Repubblica trasformato in protagonista della  scena politica (la politicizzazione del ruolo  costituisce la più grave tra  le gravi- ssime  responsabilità dell’attuale capo  dello  Stato) e, per  questa via, controllare tanto la Consulta (e
il Csm),  quanto il processo di formazione delle  leggi  ordinarie e costituzionali.

Naturalmente quello  che  oggi è un accordo tra  i due  padroni della  politica italiana è destinato a tra- sformarsi, una  volta  tagliato il traguardo della  «riforma», in una  competizione. Ma intanto è questo il cuore nero dell’intesa. E la ratio dell’agonia della  Costituzione repubblicana, alla quale inevita- bilmente assisteremo se non si riuscirà a sabotare il disegno eversivo.

A questo proposito, un’ultima considerazione. Data  la gravità della  minaccia, sarebbe necessaria la più vasta unità, nell’azione parlamentare, di quanti dissentono da tale  progetto «riformatore», oltre che  il massimo sforzo  per  avvertire l’opinione pubblica su quanto si nasconde dietro il pragmatismo del capo  del governo. Non è questo il momento delle  mezze misure.

Tutti  gli oppositori delle  «riforme» dai dissidenti democratici ai grillini, da Sel ai disobbedienti di Forza Italia e ai leghisti critici – dovrebbero ottimizzare le proprie forze  in parlamento per  fermare il progetto renziano-berlusconiano benedetto dal presidente della  Repubblica. Nella  consapevolezza che la salvaguardia del sistema costituzionale non è soltanto il più importante dei beni  politici comuni, ma anche la condizione necessaria per  una  dialettica democratica nel segno della  rappres- entanza reale della  società.


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